Avatar
Chi amiamo? Noi stessi? Un altro? Degli altri? Un tutto? E cosa ci tocca passare e subire e capire per saperlo? Di questo parla questo film. Scordatevi le semplicistiche polemiche sciocchine sul far west, gli indiani, i buoni e i cattivi e quant’altro su cui insistono molti – compreso Mereghetti – a proposito di “Avatar”. Perché l’essenziale sta nel titolo: maschera, incarnazione, l’antica latina (il termine è sanscrito) “persona”. Ovvero, per dirla veloce: ti giochi, ti spendi, autenticamente e davvero, come un altro. Vale a dire che reciti sempre e per forza… te stesso. E questo per l’appunto accade al nostro protagonista, Jack Sully, marine semplice, uno come noi, un uomo costretto su una sedia a rotelle che per un colpo beffardo del destino si ritrova a potersi infilare nella mente e nel lavoro di suo fratello gemello. Hanno lo stesso DNA, questo è quello che conta per l’esercito e per il governo della Terra, e perciò il nostro Jack Sully (sei tu, non dimenticarlo) è pronto a sostituire il gemello morto nella “guida” di un altro, un avatar, una totale e coinvolgente incarnazione di sé nel corpo e nella mente di un alieno. Lo scopo è conoscere e comprendere questi ragazzi, alti tre metri, con ossa irrobustite a fibre di carbonio e capaci di una perfetta armonia col pianeta in cui vivono. Con una mela avvelenata sottostante però, perchè la posta in gioco è un minerale maledettamente prezioso: venti milioni di dollari al chilo. Il nostro Jack si ritrova dunque a giocare in un gioco perverso e cattivo: si fa accettare dagli alieni e inizia con loro un percorso di iniziazione, sotto la guida della figlia del capo, segnata dal fatto che all’inizio della vicenda si è ritrovata per passione a salvargli al vita. “Perché l’hai fatto?” le chiede Jack subito dopo. “Tu hai un gran cuore e non hai avuto paura” è la risposta. Così comincia per Jack un’ascesi schizoide dove quando dorme come umano è un alieno, e viceversa. E intanto si diverte, sviluppa e altera sempre di più. Impara a conoscere la foresta, a saltare da un albero all’altro, a cavalcare creature a sei zampe e volare in groppa a rettili assassini che ti riconoscono come cavaliere cercando di ucciderti. E con tutti questi animali, e con le piante, quello che conta è “il legame”, che si manifesta materialmente: è un intreccio di fili, pseudopodi, piccoli tentacoli che si uniscono per fondere tra loro intenzioni, sensazioni ed emozioni degli esseri. Il problema è ovviamente che i “padroni” di Jack non la vivono come lui. Per loro l’essenziale sono le preziosissime pietre e pazienza per la vita edenica ed ecologica dei ragazzi. Ma non hanno previsto che Jack ormai li ama, e non solo loro, ma soprattutto lei, che diventa la sua sposa. A questo punto il dramma si scatena e Jack farà le sue scelte, trascinando con sé alcuni compagni umani. Perché quello che conta è la vita, non la provenienza. “Come ci si sente a tradire la propria razza?” chiede a Jack il generale dei marines ripreso pari pari da Apocalypse Now. Jack non risponde, salta sul suo drago volante di eccezionale, epocale, grandezza e vola a salvare il popolo, ormai suo, degli alieni. E’ guerra, per giustizia. Cosa capisce in questa avventura colui che potresti esser tu? Un sacco di cose: cos’è l’amore, cos’è l’appartenenza, cosa sono le scelte, cos’è il Bene, come ti marchia nella carne essere un leader, cosa significa tradire e a che prezzo vale la pena di farlo… e tantissime altre cose ancora. Una tra tutte vorrei scegliere e ricordare: che quello che siamo è definito dagli altri, da quelli che amiamo e che ci vogliono amare, che la vita è una serie di sorprese con il grande merito di rivelarci chi siamo. E che se c’è una guida, un destino, non è certo deciso prima… la Grande Madre, dice la ragazza a un certo punto, “non prende mai le parti di nessuno, ma tutela l’equilibrio della vita”. Che però ha delle regole, e penso, opino, con il regista e sceneggiatore, il grandissimo Cameron, che una di esse sia l’amore. Dedicato a chi non ha paura di scoprire che sapere per cosa vale la pena di vivere significa capire per cosa vale la pena di morire. I nostri amici alieni lo sapevano, Jack Sully l’ha capito. Ti auguro, mio avatar, altrettanto.