La bellezza é metafora
La bellezza è davvero, come diceva Sthendal, promessa di felicità? Io credo di sì, e ritengo che al riguardo vi siano oggi punti d’appoggio nelle neuroscienze. Infatti, non solo sono stati elaborati alcuni “principi” di neuroestetica (Ramachandran), ma più in generale penso che nella bellezza risuoni la metafora (o l’analogia) della metafora (o dell’analogia). Mi spiego. Se come pare, simulazione, replica e così via sono alla base del nostro sistema nervoso e di funzioni basilari quali la percezione, memoria, immaginazione e previsione (su questi argomenti posso rimandare a un libro di cui sono coautore: IES – Intelligenza empatico sociale, Franco Angeli; il sottitolo è: dai neuroni specchio allo sviluppo delle organizzazioni) allora metafora e analogia sono i “mattoni”, anzi i “funtori” chiave dei processi mentali (cosa che tra l’altro per certi versi sostiene o accenna di sostenere lo stesso Ramachandran). E se così è, perché non vedere nell’esperienza della bellezza l’esperienza ovvero l’analogia della metafora stessa? Da questo punto di vista una cosa bella sarebbe una sorta di esempio preclaro di buona metaforizzazione, una specie, per l’appunto, di metafora ben riuscita per antonomasia, il ricordo di una simulazione che risimulando la simulazione assurge ad archetipo stesso del simulare. Ovvero del meccanismo “x somiglia e sta per y”… cosa che tra l’altro sarebbe perfettamente coerente con la teoria estetica (poco nota in Italia) di Danto, il quale sostiene che un’opera d’arte è tale perché dichiarata tale, laddove nel meccanismo del dichiarare ci vedo il meccanismo dell’exemplum o se vogliamo della segnatura (Agamben) per cui estraendo un membro da una classe (quello più rappresentativo, quello che assomiglia di più – con un plus ovvero un “non so che” di somiglianza – a tutti i membri della classe) lo si rende segno e “nome” della classe stessa (è il meccanismo dell’antonomasia, ovvero quello per cui i fazzolettini di carta si chiamavano un tempo kleenex – che era una marca… archetipica). Insomma, anche qui ci vedo, in modo per quanto, ammetto, ancora embrionale e un po’ confuso, una sorta di convergenza e sovrapposizione tra rappresentare, significare e analogizzare per mezzo dell’esemplificazione analogizzante. Se ciò è vero, ne consegue a mio parere, che oggi l’arte contemporanea da una parte esibisce questo stesso meccanismo (che potremmo davvero chiamare come il suo fondamento neurologico “meccanismo specchio”) e dall’altro lo tradisce, ponendosi a un tempo a livello di eresia dell’arte o antiarte e, insieme, di discorso sull’arte. Che in questa deriva si perda l’esperienza dell’arte “bella” è cosa su cui meditare e credo sia analoga (ancora) a quella del capitalismo di oggidì, quello che ci costringe a scomposte e ossessive performance di sostituzione compulsiva dell’oggetto – e ci consegna così a un pulsione senza desiderio dove nel vortice del “godi più che puoi” ci si può tranquillamente infilare anche ciò che è brutto, disgustoso ed esecrabile. Qui forse si cela il mistero dell’emergere del kakon quale idolo nascosto della contemporaneità. Che è il negativo, in calco, forse, della felicità promessa dalla (perduta, come peraltro sempre forse essa è) bellezza. Per esprimerci una volta tanto davvero cripticamente: se il recupero del premoderno è garanzia a salvezza del senso messianico racchiuso nel movimento incessante della modernità, il futuro dell’arte non sta nella infinita metonimia del gioco del furetto (Lacan) della performance sempre nuova e diversa. E nemmeno nella metarte fine a sé stessa.