Siamo tutti soggetti postraumatici
Il concetto di soggetto postraumatico e di matrice psicoanalitica ed è stato discusso e sviscerato da Zizek nel suo libro Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie). Si tratta di un soggetto che in un certo qual senso non è più tale, ovvero è l’ombra, lo spettro, di se stesso. “In altre parole, quando abbiamo a che fare, diciamo, con un malato di Alzheimer, il punto non è solo che la sua consapevolezza è pesantemente limitata, che l’ambito dell’Io è ridotto, ma piuttosto che non abbiamo letteralmente più a che fare con lo stesso Io. Dopo il trauma emerge un altro soggetto, stiamo parlando a uno sconosciuto” (pag. 424). Ma chi è costui? Che gli è successo? Sappiamo di certo, come si dice, che “non è più lui”. Ma, secondo Zizek, in un modo molto particolare. Praticamente, semplificando, il trauma che rende così piatto e spettrale il soggetto postraumatico è una sorta di ripetizione della soggettivazione vera e propria, che avviene, secondo Lacan, precisamente attraverso la perdita di un’illusione, narcisistica, di essere uno con la Cosa (la Madre). Ma se quella prima tragica esperienza traumatica conduceva a una vita di lavoro e desiderio, perché attraverso la funzione paterna, ovvero la castrazione, il soggetto, per l’appunto veniva ad essere come ciò che restava ancora possibile dopo quella perdita, e solo così era lui, ovvero soggetto, con il trauma che produce il soggetto postraumatico, invece, avviene precisamente la perdita di quella condizione soggettiva così dolorosamente conquistata. Insomma si ripete la perdita, ma stavolta, si perde tutto. Un po’ come in certi racconti kafkiani, sto pensando a Davanti alla legge, in cui si patisce di una condizione dura e dolorosa, per scoprire poi alla fine che ci viene tolta anche quella. E in modo inappellabile. Esattamente come accade ai migranti quando vengono imprigionati o costretti in condizioni subumane. Insomma questa seconda perdita è ben più dura e definitiva, perché ci toglie la possibilità di lavorare, di darci da fare, di cercare una soluzione. Game over. Niente da fare. La porta si chiude. Fine della speranza.
Disperazione: questa è la condizione del soggetto postraumatico. I suoi archetipi, non a caso, sono il “muselmann” completamente inebetito del lager, il malato di Alzheimer, chi è stato colpito da una catastrofe insuperabile, sia essa fisica, mentale o simbolica e culturale, e si ritira nel nulla dello stordimento e dell’anestesia (penso per esempio all’alcolismo presso gli amerindi o gli aborigeni australiani).
Ma questo inebetimento, questa insensibilità, questa anestesia, non sono il nostro bagno di cultura quotidiana? Non siamo stati tutti rapinati e scippati di qualcosa di “nostro”, del senso della vita, del nostro vero io, di una speranza, di un afflato di autenticità che a malapena ricordiamo? E non ci rifugiamo noi tutti in pratiche ripetitive e istupidenti come guardare la televisione, fare cose trite e senza valore, ripetere come automi l’identico senza avere più nessuna voglia e nessuna speranza, se non quella vogliuzza per l’oggi e quella per il domani, una birra e un scopatina, l’ultimo film di pinco pallino (se vuoi far l’intellettuale), una corsetta in palestra o un flirt, quelle vogliuzze dicevo, che Nietzsche ha descritto come il placido e inconsapevole inferno dell’ultimo uomo?
E siccome l’ultimo uomo è l’ultimo baluardo contro l’avvento del superuomo… non varrebbe la pena di gettare il cuore oltre l’ostacolo? Come diceva Marx, parlando alla fin fine della stessa cosa (lui la chiamava comunismo), c’è un momento in cui non ce n’è più per nessuno e le chiacchiere non bastano più: hic Rhodus, hic salta!
E si può fare, perché in fondo non è vero che siamo soggetti postraumatici: ci turbano tanto, loro, i soggetti postraumatici, perché in realtà li mimiamo (o forse loro imitano noi…) e ci ricordano che a forza di recitare questa farsa… potremmo davvero diventare così!