“Il *se, il proprio dell’uomo, non è un indicibile, un sacer che deve restare non detto in ogni prassi e in ogni parola umana. Esso non è nemmeno, secondo il pathos del nichilismo contemporaneo, un nulla, la cui nullità fonda l’arbitrarietà e la violenza del fare sociale. Piuttosto esso è la stessa prassi sociale divenuta, alla fine, trasparente a se stessa”.

Giorgio Agamben, La potenza del pensiero

La mia amica Paola Santagostino mi dice che spesso non si capisce quello che dico. E rileggendo la citazione di cui sopra, comprendo come sia un poco criptica (che vuol dire poco chiara). E dunque la spiego. Il *se di cui parla Agamben è la parola indoeuropea, molto antica, da cui derivano parole come “sè”, “suo” (nel senso latino di “suus”, che significa “proprio”) e pure “solvere” ovvero la parola latina da cui deriva la nostra “soluzione”. Quello che Agamben intende dire, in pratica, è che noi, nel nostro più proprio essere, non siamo nè un segreto che resta sempre da scoprire, un non detto, un “quid” indicibile che si deve sempre spiegare e rispiegare, e nemmeno, come dicono i nichilisti, un nulla, un niente, uno zero, un illusione senza senso. La nostra più vera essenza, invece, dice Agamben, altro non è che ciò che facciamo, il nostro rapporto con gli altri. Senza null’altro dietro, senza segreti, senza trucchi. Siamo quello che siamo: irrimediabilmente. Il che tra l’altro significa che siamo tutti solo fuori. Non c’è più un dentro da interpretare. E nessuno che possa farlo. Siamo del tutto esposti. O meglio, pubblici. Siamo quello che sembriamo (c’è una trasmissione televisiva che ha come pay off “niente è come sembra”. Ecco, oggi questo è un discorso reazionario: ci vogliono illudere che ci sia un senso segreto delle cose… ma è roba vecchia, come un un fotoromanzo: il senso segreto non c’è più, e il vero segreto è che non c’è nessun segreto).