Nel parlare comune spesso facciamo riferimento all’intuizione: “ho intuito che…”, “ho avuto un intuizione..” ecc.  Di fatto nella nostra cultura, e in special modo nella cultura organizzativa dominante, tendiamo a squalificare questa modalità di conoscenza. Tendiamo a pensare che sia “irrazionale”, tutta da verificare, magari addirittura infondata. Nessun direttore marketing approverebbe una campagna pubblicitaria sulla base di un’argomentazione del genere – anche se, va detto, e ho scelto l’esempio a bell’apposta, il creativo di turno di fatto va per intuizioni. E tuttavia questa modalità esiste, opera ed è efficace: chiedetelo a un tennista o a un danzatore, chiedete loro di spiegare come fanno a indovinare quel tal colpo o quel tal movimento. Oppure pensate agli artisti, ma anche ai coach: chiunque come me faccia coaching (ma ho fatto anche danza) sa perfettamente che a un certo punto “vede” la configurazione, “sente” la strada da seguire, intuisce la domanda giusta da fare. E ancora pensate ai grandi innovatori, ai grandi capitani d’impresa, ai grandi strateghi ecc. ecc. Il punto è che poi non abbiamo le “parole per dirlo” e tutto questo bel lavoro della nostra mente (della nostra mente-corpo come vedremo), si costringe suo malgrado a tornare là da dove è venuta, ovvero il mondo del poco chiaro, del confuso e dell’indistinto…
Ho ripreso a pensare a queste cose oggi, sentendo a una trasmissione di Radio 24 Massimo Cacciari che parlava del pensiero ortodosso, dicendo che ciò che in esso lo colpisce e lo affascina è il rapporto tra la parola e il silenzio, tra il visibile e l’invisibile: come cioè la parola e il visibile possono fare cenno e additare a ciò non si può dire e tace. E che tuttavia, come sanno ormai tutti, essendo l’essenziale, con una bella scivolata nel pop, “è invisibile agli occhi”, come diceva il Piccolo Principe. Ma la breve dichiarazione di Cacciari mi ha risvegliato un insieme di ricordi filosofici. Vado per sommi capi e mi scusi chi non ha cultura filosofica, ma da Platone in poi in filosofia si parla spesso di intuizione, e sempre con la connotazione di “conoscenza diretta”, sia essa sensibile o intellettuale (come diceva Kant) e propriamente non discorsiva. Di qui mi discendono due tipi di sequenze di pensiero.

Prima. La consulenza filosofica e il sapere filosofico hanno di mira proprio questo: il proprio oltre, se vogliamo (Oltre la filosofia è un bellissimo libro di Giangiorgio Pasqualotto, tra l’altro), cosa che Ran Lahav ha designato come “l’intero”, in un’ottica ancora troppo platonica, a mio avviso, e quindi in fondo mistica al modo antico e poi cristianeggiante.

Seconda. La conoscenza diretta  di cui sopra si è oggi rifugiata nell’estetica e nell’arte (che non sono affatto la stessa cosa), cosa che ci contorna con belle movenze una dimenticata voce dell’Enciclopedia Einaudi a firma del giovane Agamben che parlava del gusto come “sapere che non si sa”.  Ma più profondamente ancora oggi sappiamo che l’intuizione (e con essa il gusto) ha le sue basi nell’empatia che, secondo la configurazione che esce dalla sua riconsiderazione a partire dalle neuroscienze  e dalla scoperta dei neuroni specchio, ha fondamento nella motricità (ricordate il tennista e il danzatore?), e al riguardo mi permetto di rimandare a IES – Intelligenza empatico sociale di Franco Angeli (la parte scritta da me). E qui va detto che si tratta di percorsi mentali precognitivi (che non è una contraddizione in termini, come molti penseranno, sbeffeggiando con ciò implicitamente non solo i filosofi già citati, per non parlare di tutti gli scienziati che non ho nominato, tra i cui vorrei qui di passata ricordare Maturana e Varela e il loro concetto di “embodied cognition”, ma pure per dirne solo alcuni Bergson e Husserl)  o per lo meno protocognitivi come sostiene Fabrizio Desideri nel suo La percezione riflessa (Cortina), che al riguardo pone argomenti a favore molto probanti in un continuo dialogo tra filosofia e neuroscienze. Insomma la si chiami intuizione, capacità estetica, gusto o empatia, siamo in presenza di una vera e propria facoltà della nostra mente. Che tuttavia non è riducibile alla discorsività e alla logica. E credo che in fondo a questo alludesse un pensatore molto poco platonico come Wittgestein quando ci parlava del mistico, che era per lui il luogo (forse sacro nel senso di Bateson, e qui rimando al suo postumo e scritto insieme a sua figlia  Là dove gli angeli esitano, Angels  fear in edizione originale con l’illuminante e ossimorico sottotitolo: Towards an Epistemology of the Sacred, verso un’epistemolgia del sacro) cui ci deve condurre il discorso logico, che secondo lui era una scala, che andava usata e poi buttata.

Concludendo, mi chiedo e vi chiedo: perché mai di tutto questo nelle organizzazioni non si fa nulla? Eppure sappiamo benissimo che funziona (vi ricordate i grandi capitani d’impresa di cui sopra? E i grandi strateghi?): tutti abbiamo studiato di come la molecola del benzene venne scoperta in sogno. Insomma la conoscenza (e con essa l’apprendimento) non è solo discorsiva, non è del tutto analizzabile, non è scotomizzabile integralmente a pezzetti secondo una logica lineare e fordista il cui emblema da me più aborrito è il modello di problem solving a lisca di pesce di Ishikawa, buono solo per le catene di montaggio.

Certo, si dirà, ma resta che poi, come si diceva prima, di tutto questo in fondo non ne sappiamo poi un gran che e quindi non possiamo darcene gran pensiero.  E allora come mai gran parte del pensiero organizzativo ci parla del valore della conoscenza tacita? E’ vero, forse, non sappiamo descriverla (se no sarebbe esplicita), per lo meno non completamente per il pensiero logico,  ma oggi, sapendo che stiamo parlando di una facoltà che ha a che vedere con l’arte, il gusto, il movimento e la famigerata intuizione da cui siamo partiti, sappiamo come farla crescere, attivare, incrementare. Anche se, per farlo, e qui sta la resistenza organizzativa, bisogna abbandonare il modello “comando e controllo”. Qui non si comanda e non si controlla: si favorisce, si attiva, si facilita. E le aziende vincenti di domani somiglieranno alle botteghe rinascimentali.
A proposito, sapete qual è il fondamento del mitico “intuito femminile”? La maggiore competenza relazionale ed empatica delle donne, che pare abbiano neuroni specchio più efficienti dei maschi. Del resto sono più brave anche coi colori e coi vestiti, coi trucchi (in ogni senso del termine) e con l’estetica, con il ricamo e con la danza…