Il soggetto postraumatico: il vuoto interiore
“Ultimamente, Halliday si era reso conto di essere persino in grado di convivere con la propria non-esistenza, visto che non aveva senso piangere troppo a lungo la scomparsa di qualcosa – vale a dire di un se stesso – che nemmeno riusciva più a ricordare. Tutto ciò costituiva un motivo di ansia, ma di un’ansia ormai vecchia di giorni. Quello di adesso invece era un sintomo fisico. Riguardava l’esatta metà della testa, cranio e cervello, ed era una sensazione semplicemente non-definibile. Anzi, la si sarebbe potuta descrivere come l’improvvisa scomparsa di una sensazione talmente consueta e continua da non essere più percepita, come un suono di cui ci si accorga solo nell’attimo in cui si interrompe.” Il motivo per cui ho riportato questo passo di Amsterdam di Ian McEwan è che credo ci possa introdurre al mondo del soggetto postraumatico, di cui vorrei occuparmi per un po’, annunciando fin da subito che intendo per soggetto postraumatico da una parte quello che risulta da stress profondi e massivi, come per esempio un’esplosione, ma anche vi vedo, dall’altra, con il conforto di autori quali Zizek e Agamben, il paradigma della nostra condizione ipermoderna. In particolare, nel brano citato sopra, trovo interessante che il considerarsi inesistente sia cosa consueta, esattamente come accadde a noi nello scorso secolo con i paradossi del cogito cartesiano ovvero del soggetto moderno, che si scoprì per l’appunto inesistente, o per lo meno inconsistente, diviso e straniero a se stesso. Ma la novità, la cosa in questione, sta nella diversa percezione che s’annuncia, quasi subdolamente o meglio, in modo quasi strisciante, inapparente, asemantico: è sparito qualcosa di quasi-fisico e a questo qualcosa di quasi-fisico sono legati da una parte l’idea di una sensazione “consueta e continua”, come dire, una sorta di base continua (forse il cogito stesso, azzardo, anch’esso peraltro, come detto poco sopra, consueto), dall’altra la scomparsa di un sentire, o meglio forse del sentire stesso, ovvero del sentirsi sentire. Che il romanzo di McEwan si apra con una fulminante morte per Alzheimer non mi pare a questo punto un caso. Come non credo sia un caso che poco dopo, il nostro vacuo Halliday si senta meglio perché “adesso che era di nuovo in mezzo alla gente, immerso nel proprio lavoro, il vuoto interiore non lo affliggeva più”. Cosa abbiamo perduto? Perché la vita ci sembra senza senso? Cosa possiamo fare al riguardo? Credo che condividiamo tutti questi interrogativi. Come pure l’assenza di risposte. E forse vale la pena di cercarle.