Nello splendido corso del 1981-1982 intitolato L’ermeneutica del soggetto, Michel Foucault, verso la fine, nella lezione del 24 Marzo, si lancia in un grande affresco storico dicendo che “in Occidente, in fondo, sono state conosciute e messe in atto tre grandi forme di esercizio del pensiero, di riflessione del pensiero su se stesso, vale a dire tre grandi forme di riflessività”. Esse sono, continua Foucault, la memoria; esercitata dagli antichi greci come strumento per ritrovare le eterne verità dimenticate dall’anima; la meditazione, esercitata nel periodo ellenistico romano e quindi, in modo un po’ diverso, nel cristianesimo, per avere cura di sé e formare il soggetto come soggetto di verità, ovvero dai pensieri e dalle parole coerenti con gli atti e le opere; e il metodo, ovvero il dispositivo di nascita cartesiana e poi al cuore della scientificità moderna, secondo il quale si reperisce a forza di dubbi radicali la certezza sulla quale edificare la conoscenza. E fin qui tutto bene, anche se chiaramente molto semplificato. Ma vi sono delle belle complicazioni. Soprattutto quella per cui se per l’appunto col cartesianesimo “il legame tra l’accesso alla verità, divenuto sviluppo autonomo della conoscenza, e l’esigenza di una trasformazione del soggetto, e del suo essere, da parte del soggetto stesso, è stato credo, definitivamente spezzato” (lezione del 6 Gennaio), ecco che subito dopo Foucault aggiunge che “è inutile che vi dica che, quando affermo che mi sembra che tale legame sia stato definitivamente interrotto, non ci credo neanche un po’”, per proseguire poi con un inquadramento di fenomeni quali il marxismo e la psicoanalisi nel più ampio alveo di una sorta di sopravvivenza di quella trasformazione del soggetto ad opera del soggetto stesso che l’autore non esita, proprio in queste pagine, a chiamare “spiritualità”. E per di più, in tutta questa storia, Foucault non trascura mai di fare riferimento, senza mai approfondire a causa dei limiti storici dell’argomento del corso, al cristianesimo che, in sintesi, fa evolvere la meditazione verso un dire la verità su di sé – dove possiamo indovinare, finalmente con chiarezza, le radici cristiane della psicoanalisi.

Scusate per il lungo riassunto, ma tutto questo mi serve per porre una questione: dove siamo oggi? Qual è la forma di soggettività, la forma di “riflessività” (parola che sposo in toto) che ci contraddistingue oggi? Perché una cosa è certa: l’idea che sia possibile accedere alla verità su di sé mediante la scienza (il metodo), se mai ha avuto corso legale, oggi è più che mai messa in questione dal fatto che da almeno mezzo secolo è chiaro a tutti come il soggetto sia implicato in ogni proferimento (anche in quelli scientifici). Non si tratta soltanto dell’errore di Cartesio, come direbbe Damasio, ovvero dell’esclusione delle emozioni e della situazionalità, ma del fatto che ogni frase “è detta da un osservatore”, come direbbero Maturana e Varela, per non parlare di tante altre questioni note, che vanno dal teorema di Goedel, al principio di indeterminazione di Heisenberg, dalla sovradeterminazione del senso di matrice freudiana al paradossale rapporto che lega il soggetto dell’enunciato con quello dell’enunciazione in Benveniste (mi si scusi l’esibizione di erudizione, peraltro media e modesta, ma qualche riferimento va pure dato).Insomma non siamo mai fuori gioco, non c’è un terreno di gioco esterno a noi e il soggetto qualunque cosa faccia o dica, nel contempo si divide e trasforma sia se stesso che il mondo. Fine del sogno hilbertiano di calcolare tutto. Anche perché, come mostrò magistralmente per illustrare il concetto di complessità uno scrittore a me caro, Samuel Delany, in uno dei suoi romanzi (credo si tratti di Stella imperiale), se fai il dizionario del mondo, quando hai finito sono sorte già molte parole nuove e devi pure dare un nome al dizionario, aggiungendo ad esso una parola che, aggiungendosi alle altre, lo cambia…

E dunque? Siamo al ritorno della spiritualità? Certo i segni dei tempi depongono a favore: e cosa mai cercherebbero, infatti, se non proprio una via di trasformazione di sé, tutti coloro che si rivolgono a sette e buddismi, analisi transazionali e psicologie positive, coaching e psicoterapie varie, per non parlare di chi (avis rara) sperimenta la consulenza filosofica? D’accordo… ma che caratteristiche ha questa nuova (nuova?) forma di riflessività, ovvero di soggettivazione che pare (forse) affacciarsi tra noi a partire (direi) dalla postmodernità? Foucault ci ha dato qualche indicazione, sparsa qua e là nei suoi testi, e voglio evocarne una, che ci regala proprio alla fine del corso in questione (sempre la lezione del 24 Marzo), dicendo che “la sfida lanciata dal pensiero occidentale alla filosofia (…) consiste nel chiedere in che modo ciò che si dà come oggetto di sapere articolato sul dominio della tekhne [qui Foucault sta alludendo al mondo], possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta, si mette alla prova, e con difficoltà giunge a compimento, la verità di quel soggetto che noi stessi siamo. E in che modo il mondo, che si dà come oggetto di conoscenza a partire dal dominio della tekhne, possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta e in cui si mette alla prova il “se stessi” come soggetto etico di verità”, specificando poi che si tratta di capire come sia possibile che il mondo sia ad un tempo oggetto di conoscenza e luogo dell’esperienza (trasformativa) del soggetto. Detta così sembra che si ripercorra la vecchia distinzione tra scienze della natura e dell’uomo, o per dir meglio, nomotetiche e idiografiche (secondo la terminologia di Windelband), ma v’è un passo di Le parole e le cose in cui Foucault (decenni prima) ci evoca la struttura della soggettività moderna ai suoi albori riferendosi a una sua icona celeberrima: Don Chisciotte, che ha scienza (ha letto molti libri, fino a perdere il senno) e non esperienza, e Sancho Panza, che ha esperienza (parla per proverbi e ha senso pratico) e non scienza. Mi ricordano il cieco e lo storpio, devono stare insieme per procedere, ma a differenza loro, senza integrarsi gran ché, tant’è che il loro è un dialogo tra sordi, e per questo comico. In questo stare insieme, come dice Foucault, ad un tempo, e in questo difficile dialogo tra scienza ed esperienza, e nel vuoto attorno a cui esso si articola, credo si celi la chiave interpretativa per decifrare l’enigma della nostra, contemporanea, forma di soggettività.