Ho letto questo libro di Howard Gardner, motivato dall’autorevolezza dell’autore, memore delle tesi di Formae mentis, un saggio sulla pluralità dell’intelligenza che mi ha trovato sostanzialmente d’accordo, e motivato pure, altresì, dalla coincidenza tra il titolo e i temi fondamentali della mia riflessione, e della riflessione filosofica nel suo insieme. Peraltro il sottotitolo del saggio: “educare alle virtù nel ventunesimo secolo” mi affascinava e speravo che il grande, davvero grande, intellettuale americano, uno di quelli capaci, come Noam Chomsky o George Steiner, di svariare tra le pieghe della cultura internazionale con uno sguardo d’insieme che spesso i solo europei non riescono ad applicare, ci desse qualche lume su questioni e problemi che interessano l’umanità più o meno da quando esiste. Ma sono rimasto deluso. Perché? Per due motivi. In primo luogo Gardner, attenendosi a uno stile analitico (da filosofia analitica, tipicamente anglosassone) rigoroso ma un po’ scabro e addirittura a volte noioso, non ci dà molto di più di quanto già sappiamo: la verità è fondamentale perché se mentiamo o pensiamo fesserie ci facciamo del male; la bontà è ciò che in fin dei conti, al di là delle diverse variazioni contestuali e culturali, tutti noi richiediamo agli altri e noi stessi, e su cui siamo in fondo abbastanza d’accordo quanto ai parametri fondamentali (non uccidere senza motivo, non fare i bastardi, mantenere gli impegni eccetera); la bellezza, il fascino della bellezza, ci interessa e ci motiva, anche se, ahimè, non siamo facilmente d’accordo su cosa sia bello oppure no. Tutto vero. Ma tutto qui? Ora, io penso che il vero interesse di mettere a tema questi concetti non stia tanto nella disanima separata del loro singolo status, ma nei collegamenti tra loro. E qui risiede il secondo motivo della mia delusione. Se infatti ha senso per noi preoccuparci di questi concetti o valori è perché ci dicono qualcosa di fondamentale su di noi, su ciò che veramente ci sta a cuore. E cosa ci interpella davvero al riguardo? Che la verità, la bellezza e la bontà in qualche modo si rispecchiano e si riverberano, ovvero sono, in fondo, per certi versi, la stessa cosa. Pensiamoci insieme. Una cosa vera non è forse anche un cosa buona? O meglio, come pensare che una menzogna o un errore siano una cosa buona? Le relazioni, spesso identitarie, tra etica e conoscenza sono un grande tema della riflessione filosofica, da Platone, anzi da Socrate, e forse da prima, in poi. Ed è pure vero che verità e giustizia (o bontà) a partire dall’età moderna sono state separate, e non solo per motivi surrettizi o storicamente determinati, perché è vero (vero) che una verità non è sempre buona (per esempio che hai una brutta malattia è vero, ma non è buono). Tuttavia resta il fatto che per ognuno di noi la verità è un parametro per decidere della bontà (o della giustizia) tant’è vero che nei tribunali si cerca di accertare la verità allo scopo di stabilire dove sta il bene e dove sta il male. Ma il vero grande assente in questo plesso problematico è il concetto di bellezza. Non voglio tirarla per le lunghe e ricorro a un aneddoto che cito spesso: dice Gregory Bateson (un altro grande intellettuale americano) che è molto facile capire qual è il capo di un branco di lupi. E’ il più bello. I greci dicevano kalos kai agathos, bello e buono. E Stendhal diceva che la bellezza è promessa di felicità. Come dire: la bellezza è armonia, e l’armonia è segno efficace di rapporti ben formati con l’ambiente, ovvero di giustizia e bontà, riconosciute come verità da chi vi è implicato. Ora, so perfettamente che procedere in modo acritico su questa strada ci riporta credere in Dio (che è vero, buono e bello) e sembra riproporre modelli propri di una società teocratica. Ma sta di fatto che qualcosa abbiamo perduto, e ne soffriamo. Ricomporre l’infranto (come diceva Benjamin)? Si, certo, perché l’infranto è l’inferno. Ma senza cedere alle lusinghe della totalitarietà. Perché se verità, bellezza e bontà alludono, nei loro diversi aspetti, a un Uno che le unisce e ne rende ragione, niente e nessuno sa a priori qual è. Non ci resta che costruirlo insieme.