“Per vivere devi far morire te stesso. Ecco perchè tante persone si arrendono.”

Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

L’aforisma di cui sopra si trova alla pagina 20 dell’edizione tascabile Einaudi, ma tutto il passo – e il libro – è straordinario per percorrere in modo illuminante la dialettica tra identità e cambiamento così come ci si propone oggi. A dimostrazione aggiungo un aforisma tratto da poche righe prima: “La vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata”…. insomma viviamo in un mondo in cui il rimpiazzo è talmente veloce da mettere in questione l’identità del rimpiazzato. Un po’ come la celebre (in filosofia) nave di Teseo, in cui pezzi vengono cambiati man mano, finchè di originale non v’è più niente. Se una cosa del genere accade a te, e ti accade alla svelta, chi sei allora? Non ti sei forse perso a te stesso? E infatti ecco come continua l’aforisma da cui sono partito inizialmente:

“Perchè, per quanto lottino con forza, sanno di essere destinate a perdere. E a quel punto è completamente inutile tentare di lottare”.

(Non è una prospettiva teorica, in giro, per strada e per le aziende, di persone che si sentono così ne trovo… forse non tante, perchè di solito si fermano ancora prima, ovvero si arrendono senza lottare gran chè, ma alcune, che arrivano a sfinirsi, a disperare oggettivamente, sì)

Ma chiedo e vi chiedo: è proprio così? La perdita dei principi, dei punti di riferimento, delle abitudini, e quindi dell’identità (così come la conosciamo) è per forza una catastrofe (il mondo descritto da Auster in Nel paese delle ultime cose è catastrofico, orribile, disperato…)? Perdersi a se stessi è per forza una sconfitta? Non sapere più cosa ci aspetta è per forza una disperazione? L’incertezza (forte, strutturale, fondativa) comporta per forza l’assenza di speranza?